Vi riportiamo le loro storie come loro le raccontano
Ilaria
Siamo donne, ragazze, con una storia sanitaria difficile, alle spalle o sulle spalle.
E questo è il nostro riscatto.
Abbiamo dovuto subire o affrontare, comunque sostenere sguardi di estranei, spesso indagatori, insistenti, o compassionevoli. Chi perché aveva perso i capelli per la chemioterapia, chi, per respirare, doveva portarsi uno zainetto con la bombola di ossigeno e due tubicini infilati nel naso. Chi aveva una magrezza attira sguardi, o forme considerate abbondanti e chi il mostro lo aveva nella testa, ma non poteva che leggersi in volto.
Donne rinate, dopo un faticoso e personalissimo percorso. Pronte a rimettersi in gioco ma insieme, in cordata, e raggiungere una vetta dopo l’altra. Una fatica diversa. Non una lotta ma una sfida. Non uno sfinimento ma un allenamento.
Guardateci ora, dunque: si può tornare come prima. Di più: si può essere più sane, più forti, più consapevoli.
La mia storia è la storia di una donna alla quale la vita ha dato molto ma ha tolto anche tanto. Ho impiegato sei anni per trovare le parole. Non è facile parlare della propria sofferenza. Verso la fine del 2013 ho perso Alice e Federica, le mie figlie, nate prematuramente in una calda giornata di ottobre. Abbiamo lottato per giorni. Tredici per l’esattezza. Loro troppo piccole per vivere ed io ad un passo dalla morte per arresto cardiaco. Poi il buio e la mia lenta ripresa. Dal letto della Rianimazione il pensiero era sempre lo stesso..”Se esco viva da qui voglio andare in montagna..voglio rivedere la neve che dona bellezza ad ogni cosa sopra la quale si posa e respirare senza questo maledetto aggeggio! Pur avendo assistito personalmente centinaia di persone nella mia condizione, non ero consapevole che da lì a poco sarebbe iniziata la salita più dura, quella del ritorno a casa e della quotidianità..Per fuggire dalla curiosità morbosa di chi fa domande talvolta inopportune ecco la mia prima salita sul Monte Beigua in solitaria, (con valori di emoglobina quasi incompatibili con la vita), la mia prima arrampicata, la mia prima salita con gli sci e al mio primo 4000. Ed è lì, fra le vette che toccano il cielo, nello spazio infinito che mi trovo spesso davanti ho sentito spesso il bisogno di ringraziare Dio, o chi per esso, per avermi concesso la seconda possibilità. Qualcuno sostiene che si è atei finché non si ha paura e colui che afferma ciò non ha tutti i torti. Ma comunque sono qui e spero di poter ispirare i miei affetti ad essere la parte meravigliosa di se stessi ancora a lungo.
Alla montagna devo tanto. Mi ha ridato la forza, la fiducia di potercela fare anche quando si perde la capacità di coniugare i verbi al futuro. E poi la storia di Marta, che si intreccia con la mia..una giovane donna che muore mettendo al mondo ciò che di più bello due persone possano desiderare. E con lei se ne va anche il suo piccolino. E così mi metto in contatto con Christian, autore del libro “Andare Avanti”, marito di Marta Lazzarin, che ha saputo trasformare il suo dolore in forza, fondando la Marta4kids e percorrendo quattromila chilometri di eccezionale solidarietà a piedi per l’Italia, raccogliendo fondi per la ricerca a favore della fibrosi cistica. A tutti racconta che il senso della vita, anche quando appare ingrata e ingiusta, è l’amore per gli altri. Decido che per ricordare Alice e Federica, Marta e il suo piccolino possa dare un aiuto a Christian percorrendo gli stessi metri ma verso il cielo..e così dopo cinque anni di sofferenza, allenamenti in quota, gioie e tutta una serie di fatiche inenarrabili alle 7.20 del 26 agosto arrivo sulla vetta del Monte Bianco. Sobrietà di gesti e pensieri, l’aria che via via si fa sottile e un’alba che ricorderò per sempre.
Oggi, oltre ai miei ragazzini splendidi, ho la montagna che mi aiuta a superare una quotidianità non sempre facile. Credo fermamente in questo progetto, affinché possa ispirare donne e uomini affetti da fibrosi cistica ad andare avanti, ad avere la forza di continuare a coniugare i verbi futuro.
Tutti i sogni sono in salita.
Valeria appena letta la mia storia su un quotidiano si è messa in contatto con me.
Valeria
“Per cercare di scrivere chi sono, per raccontare la mia storia, ho iniziato a frugare tra le mille foto dimenticate nel pc. Ho così ripercorso gli ultimi anni, cosa che non facevo da un po’, nel vorticoso correre dei giorni, così splendidamente affannati, per me.
Perchè sono passata dall’affanno polmonare continuo, anche da ferma, senza tregua, senza mai riposo, a voler cercare un affanno per espanderli sempre e sempre di più, questi polmoni. Non miei. Ma che sono, ad oggi, la parte più preziosa che ho.
Li custodisco da due anni e mezzo, grazie a un trapianto bipolmonare eseguito al Policlinico di Milano. una operazione iniziata alle 6 del mattino e terminata alle 22,30, con ecmo finale (circolazione extracorporea e quindi dall’esito non scontato).
Questi polmoni trattenuti con tutte le mie forze, al presentarsi improvviso di un rigetto acuto, nel settembre 2018. Ancora ossigeno, quindi, a 12 litri al minuto, ancora Niv, Cpap, e varia strumentazione che rendesse ancora possibile una respirazione, e ancora impossibilità di camminare, e boli di cortisone da 7 grammi. Ma sono qui.
Al trapianto mi ha portato la fibrosi cistica, una malattia genetica degenerativa e attualmente ancora senza una cura definitiva, che aggredisce e distrugge progressivamente molti organi interni: i polmoni, soprattutto.
Alla voglia di arrivare in vetta, all’amore, a mia figlia, all’amicizia, e a tutto quello che nella vita credo conti qualcosa mi ha portato una forza che tutti abbiamo. E che a tutti, prima o poi, tocca dimostrare.
Il titolo del progetto, Guardami adesso, è volutamente arrogante: sa di rivalsa, di riscatto. Sa di una testa che finalmente si alza, per poter respirare, per aver fiato di rispondere a quella domanda: cosa ti è successo?
In quel titolo c’è il peso di tutti gli sguardi che ho finto di ignorare, affrontato, sopportato, quando tossivo, respiravo a fatica, e per farlo, giravo con uno stroller, una bombola di ossigeno portatile piuttosto ingombrante e rumorosa. Per questo, ho così poche foto di me coi tubicini nel naso. Ricordo che prima di fare una foto, nascondevo l’ossigeno.
Sbagliavo.
Perchè in quel “guardami adesso” c’è soprattutto, fortissimo: guarda da dove arrivo. Guarda che la battaglia più importante, in certi giorni, è stata andare dal letto al bagno, e non solo la conquista di una vetta che oggi mi permetto di provare.
Guarda che il mio viso gonfio di cortisone era lo stesso sorridente, come ora. Guarda che questa è una finestra.
Una finestra in cui gira bene il vento, in cui il respiro è buono ma tutti i trapiantati imparano che la finestra è un intervallo di tempo.
La “finestra trapianto” è quel tempo in cui il paziente non sta più così bene da farcela coi propri organi, ma nemmeno così male da non superare l’intervento. Ed è in quella finestra che bisogna tentare una rinascita.
I tubicini torneranno, i soffitti a quadrati dell’ospedale tornerò a fissarli ma intanto… Oggi la mia finestra mi permette di sognare. E io sogno. Il panorama è spettacolare e io lo dipingo negli occhi, per fare scorta in tempi peggiori”
Io e Valeria ci siamo messe in contatto ed è nato il progetto, in memoria di Marco Menegus, affetto da fibrosi cistica, trapiantato di polmoni, scomparso prematuramente. Marco era un grande alpinista, figlio di guida alpina bellunese
Il 18 agosto io e Valeria proveremo a salire sul Gran Paradiso, accompagnate dalla guida alpina di Courmayeur Anna Torretta. Sarà un’occasione per sensibilizzare le persone ed aiutarne altre.
Tutte le promesse valgono. Ma quelle fatte a se stessi valgono di più.
Quando il mio amico Marco è andato via, ha avuto l’ unico rimpianto di non aver raggiunto, per pochi metri, capanna Margherita sul Monte Rosa. Ha comunque stabilito il record, come primo trapiantato al mondo ad essere salito con gli sci d’alpinismo a oltre 4300 mt.
Mi ero ripromessa di onorare in qualche modo questa impresa, e quello che ha significato per i trapiantati, in particolare di polmoni, e per chi era ancora in lista d’attesa, in preda ai pensieri più oscuri.
E come “un’ape furibonda che sbatte contro la finestra” cercavo un modo per cercare un riscatto.
Per me. Per lui. Per tutte le donne prede di sguardi difficili da sostenere, perché la loro condizione fisica veniva gridata al mondo da un particolare, dall’aspetto fisico, da una condizione, permanente o temporanea.
Malate prima di essere donne. Compatite, prima di essere capite. Osservate, prima di essere guardate.
Un giorno una amica che sapeva della mia intenzione di avvicinarmi alla Montagna, con tutto il timore e il rispetto necessari, mi ha segnalato la storia di Ilaria.
Le ho scritto le mie folli intenzioni. La prima frase che mi ha scritto è stata: ti accompagno io. Era una risposta folle, o probabilmente cortese, da dare a una sconosciuta.
Eppure, per un motivo che non so spiegare ma che probabilmente sta tutto nella profondità degli occhi di Ilaria, era la risposta che mi aspettavo. A cui ho creduto subito, e a cui continuo a credere, fortissimamente, ogni giorno.
I nostri progetti si sono fermati, come quelli di tutti. Ancora una volta nelle nostre vite, i piani si erano scombinati. Ma abbiamo rimandato, ripensato, reinventato.
Un passo alla volta.
Gradatim ascenditur ad alta.
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